LA VICENDA DELLA FAMIGLIA PETRONIO DALL’ISTRIA A PESARO. LA SALVEZZA DELLA PICCOLA A BORDO DI UN’AMBULANZA CLANDESTINA
Loredana: una bambina scampata alla
“slavizzazione” del comunismo di Tito
Mercoledì 10 febbraio l’Italia celebra il “Giorno del ricordo” per non dimenticare le migliaia di italiani massacrati in Istria, Dalmazia e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1945, uccisi dai partigiani comunisti di Tito solo perché italiani. Nelle foibe vennero gettati ancora vivi, l’uno legato all’altro col fil di ferro, uomini, donne, anziani e bambini. Ma il ricordo riguarda anche la tragedia dei profughi giuliani: 350 mila costretti all’esodo, a lasciare case e ogni bene per rifugiarsi in Italia e nel mondo dove furono trattati spesso con disprezzo. Pesaro è molto legata alle vicende del confine orientale. Qui giunsero infatti migliaia di bambini orfani che vennero aiutati ed ospitati da don Pietro Damiani che per loro fondò il grande complesso del collegio Zandonai. Tra loro anche Lorenzo Rovis, già presidente dell’Associazione delle Comunità Istriane, grazie al quale ogni anno Trieste ricorda il sacerdote pesarese.
Tra le storie dei numerosi esuli giunti a Pesaro c’è anche quella della famiglia Petronio. Una vicenda, mai raccontata, che riaffiora dalla testimonianza di Loredana. Nata nel 1941 a Mattuglie, cittadina dell’Istria vicina a Fiume, Loredana vive con papà Danilo, dipendente della Cassa di Risparmio di Abbazia, e mamma Erminia Huber di nazionalità austriaca. La piccola è molto affezionata alla nonna materna Lucia Frank di probabile origine ebraica e alla nonna paterna Anna Pem, ungherese. Nonostante la guerra la vita scorre serena fino all’arrivo dei partigiani di Tito. Nel 1944 il padre viene licenziato e la famiglia Petronio si ritrova in balia degli eventi. «I partigiani di Tito – racconta oggi Loredana – uccidevano tutti i giorni e la mia famiglia cercava in ogni modo di proteggermi. Ricordo che un giorno in una fossa davanti casa, avevo trovato alcuni cadaveri e mia madre, per non spaventarmi, mi disse di non toccarli perché stavano dormendo». In questa situazione l’unica possibilità di salvezza è la fuga verso l’Italia. Nel 1946 il direttore della Cassa di Risparmio di Abbazia, il dott. Comici, rifugiatosi a Fabriano, riesce ad ottenere dalla sede centrale dell’istituto di credito che tutti i dipendenti della piccola banca istriana venissero assunti nelle varie filiali sparse in Italia. Fu così che la famiglia Petronio giunse a Pesaro, ospite dell’amico Giorgio Scala, musicista conosciuto anni prima nel teatro di Abbazia. Ma Loredana per ordine di Tito non potè lasciare il paese. Data l’età era una di quei bambini che servivano alla Jugoslavia per ripopolare la nascente repubblica socialista. «Quando in famiglia mi raccontavano questa cosa – dice Loredana – non ci credevo ma poi ho trovato tra le carte dei miei genitori un documento che li intimava a consegnarmi alle autorità titine in cambio del rimpatrio. Per molti bambini era questo il destino e in seguito seppi che la figlia del dott. Comici, mia coetanea, venne slavizzata». Prima di lasciare l’Istria, mamma e papà nascondono Loredana a Fiume dalla nonna Anna. «I miei ricordi – racconta – sono vivi come se fosse ieri. La nonna mi avvolse in un mucchio di vestiti e mi nascose in un armadio, così quando i partigiani perquisirono la casa non mi trovarono».
Ma ormai la bambina era ricercata e la situazione sempre più pericolosa. «Ricordo che la notte venivano a casa mia le mogli di alcuni italiani tenuti prigionieri nel vicino albergo trasformato in luogo di tortura, speravano di vedere i loro cari dalle finestre. Durante il giorno si sentivano gridare da quelle mura. Venivano seviziati in modo orribile».
Nel 1947 nonna Anna, ottima conoscente del Vescovo di Fiume, ideò un piano di fuga. Grazie alla compiacenza di alcuni medici riuscì a farsi prescrivere dalla clinica della città una visita cardiologica a Trieste, dal prof. Mann, ed ottenne un trasferimento in ambulanza a bordo della quale nascose la piccola Loredana. Dopo qualche mese arriva il trasferimento da Trieste a Pesaro. Qui fu costretta a vivere come apolide fino al 1948. «Una città tetra – ricorda – ma soprattutto inospitale verso noi bambini che venivamo chiamati zingari. Questa infatti era una zona rossa e per i pesaresi eravamo dei traditori del paradiso comunista». A Pesaro Loredana frequenterà il Carducci, le magistrali e poi l’università a Urbino. Sarà insegnante di scuola materna in via Togliatti e nel 1972 si sposa con Franco Lombardozzi, direttore di macchina della marina mercantile. Insieme a lui per la prima volta torna a Fiume a metà degli anni Sessanta. Una volta sbarcati, a causa di un disguido delle autorità portuali, non le viene rilasciato il permesso di soggiorno temporaneo. «Ero terrorizzata – spiega – perché credevo di essere stata scoperta e mi ricordai di due esuli amici di mio padre che, dopo un viaggio in Istria, non fecero mai più ritorno in Italia. Presa dal panico decisi di tornare sulla nave,che era in rada, gettandomi nell’acqua gelata del porto ma per fortuna poco dopo mi consegnarono il permesso…»
In seguito Loredana tornerà altre volte a Fiume senza più sentirsi a casa. «Un giorno all’hotel Cristallo – ricorda – quando il personale si accorse che ero di Mattuglie, si rifiutò di portarmi le valigie e in strada mi gettarono anche dell’acqua dalle finestre».
Oggi della famiglia Petronio rimane lei sola, altri parenti si sono dispersi in varie parti del mondo. L’esodo ha sradicato ogni cosa tranne il ricordo. «Spero che questa testimonianza possa aiutare i ragazzi a conoscere la storia – conclude Loredana – ma spero soprattutto che le famiglie possano vivere unite e crescere con amore i figli per un futuro migliore».
Roberto Mazzoli