Il paradiso, per un tossicodipendente d’eroina, è la Thailandia. Per questo anni
fa ci sono stato, in compagnia di un amico. A pensarci bene “amico” è una parola grossa,visto che l’unica cosa che ci accomunava era lei: “la roba”.
Fatto sta che appena arrivati, per una settimana, mi sono sentito davvero in
paradiso… Poi, mentre un giorno mi ciondolavo su di un’amaca fra due palme a due passi dal mare, arrivarono due guardie. Il mio “amico” aveva fatto qualcosa che non doveva ed aveva fatto anche il mio nome. Io ero strafatto e non riuscivo a capire cosa volessero da me.
Mi afferrarono e trovarono nelle mie tasche 2 grammi di eroina. Ingenuamente pensai che non ci avrebbero dato peso, visto che si trattava di uso personale. Invece stavo rischiando dai 6 ai 12 anni di reclusione. Le due guardie continuavano a parlare, ma io non capivo e ridevo, finché uno di loro mi ha
detto in italiano: “adesso te lo togliamo noi quel sorrisetto del c…o” ed hanno iniziato a massacrarmi di botte finchè non sono svenuto. Quando mi sono ripreso, prima di aprire gli occhi, vomitavo sangue.
Ero tutto bagnato, probabilmente mi avevano fatto la doccia con l’idrante dell’antincendio. È così infatti che ci lavavano. Arrivavano davanti alla cella e ci spruzzavano addosso il getto d’acqua con l’idrante. Non so quanti metri
quadrati fosse la cella, ma ricordo che vi erano solo tre mura, il quarto lato erano le sbarre. In quel buco era stipata gente di ogni etnia; non c’era altro, niente. Nessuna branda, tv, tavolino, sgabelli, fornelli per cucinare, pentole etc. Cose che si trovano invece in un carcere Italiano, anche se sovraffollato.
In Thailandia, quando ci portavano il “cibo”, lo gettavano direttamente in terra. Io stavo accucciato in un angolo e vedevo i miei “concellini” gettarsi
su quella melmaglia a mangiare direttamente dal pavimento come maiali. Per le guardie noi eravamo nient’altro che carne da macello.
Per tre mesi ho digiunato, poi sono diventato bestia anche io. Ero convinto di morirci in quella cella, mi ero completamente lasciato andare ai miei istinti primordiali; perché lì era “morte tua, vita mia”. Nonostante ne sia
uscito vivo per vie burocratiche, a tutt’oggi rimangono indelebili nella mia mente i ricordi di tutte quelle persone che si sono impiccate, o di chi si è tagliato la gola.
Ho visto con i miei occhi un detenuto prendere a testate il muro fino ad aprirsi il cranio e pure io avrei voluto farla finita, ma non ne ho avuto il coraggio.
A farmi forza era una scritta incisa sul muro della mia gabbia che diceva: “Per attraversare l’inferno bisogna passarci in mezzo”. Io sono riuscito ad ttraversarlo, ma ancora mi chiedo che fine abbia fatto il mio “amico”. Ora sono qui, a Pesaro e mi verrebbe da dire che questo non è un carcere. Certo
anche qui c’è gente che muore e i nostri diritti umani vengono continuamente calpestati a causa del sovraffollamento. Anche se in modo diverso credo che anche noi, ai vostri occhi, rimaniamo bestie.
emi