: L’architetto Giancarlo De Carlo, giunto ad Urbino su invito del rettore Carlo Bo, scelse di pensare lo sviluppo di Urbino in una visione unica in quanto entrambi, l’ambiente naturale e quello abitato, sono storia della collettività.
Venti anni fa moriva l’architetto Giancarlo De Carlo che ad Urbino ha lasciato la propria impronta sia all’interno del centro storico, come le facoltà di giurisprudenza e dell’ex magistero, sia i collegi universitari all’esterno delle mura cittadine oggetto ancora di ammirazione e di studio, senza trascurare il fatto che è stato l’estensore di due piani regolatori comunali.
L’arrivo. Giunse in città nei primi anni Cinquanta su invito dell’allora rettore Carlo Bo con il quale, e grazie anche all’appoggio dell’amministrazione civica, si gettarono le basi per l’Urbino del futuro. Di lui si parlerà in varie occasioni nel corso del 2025 dopo il recente incontro con l’ex sindaco di Venezia e filosofo Massimo Cacciari, nell’ambito di una serie di ricordanze a lui dedicate. “Le forze in gioco erano sostanzialmente due – ricordò De Carlo in un convegno dedicato ai centri storici svoltosi ad Urbino nella metà degli anni Sessanta -: il turismo e l’università, sulle quali si è puntato per impostare un quadro dello sviluppo economico e sociale della città”.
Centro storico. Come primo atto si concentrò sulle ragioni per le quali si poteva combattere la battaglia della conservazione. Di qui la decisione di considerare “il nucleo urbano come una unità e non come una addizione di monumenti, dove una parte è strettamente correlata con tutte le altre e dove ogni modificazione deve tener conto delle infinite ripercussioni che provoca nello insieme”. “Nelle zone esterne, dove l’espansione era possibile senza creare contrasti al centro storico, venne sollecitata al massimo la formazione di strutture e forme moderne poiché – precisò il professionista – solo le espressioni autentiche del nostro tempo abbiano la possibilità di stabilire rapporti attivi e sollecitanti con le espressioni autentiche del passato”.
Complementarietà. De Carlo giunse alla conclusione che urbanità e paesaggio erano complementari tra loro e non divisibili, perché frutto di un lungo lavoro umano. “Entrambi – disse nell’occasione – sono la registrazione delle vicende della collettività, sono la storia della collettività. Il loro livello estetico è il segno del valore culturale della società che le ha prodotte”. “Per cui – proseguì – distruggendo le forme e alterando le strutture si altera e si distrugge il valore culturale della comunità, si altera e si distrugge la traccia della sua storia”. Per il suo modo di interpretare le soluzioni architettoniche l’ambiente abitato e quello naturale non potevano non andare a braccetto. Questo si verifica “solo quando le forme di una città non sono soltanto rappresentative di una cultura locale ma anche rappresentative di una cultura più generale, di una cultura universale in quanto appartengono al patrimonio culturale del mondo”. Le sue scelte si scontrarono spesso con i canoni dell’architettura imperante ma è proprio la capacità di instaurare sempre delle relazioni forti tra teoria e pratica gli consentì di imporsi come uno tra i pensatori più acuti dell’architettura italiana.