“Guarda. Perché in ogni compagnia ci sono sempre persone, o momenti di persone, da guardare. Nessun compito è più decisivo che intercettare quelle presenze in cui si vede in atto un’esperienza di vita più affascinante”. Con questa citazione di don Giussani, Marco Scavolini, responsabile della Fraternità di Comunione e Liberazione, ha introdotto – venerdì 3 maggio a Palazzo Antaldi – l’incontro di presentazione del libro su Andrea Aziani, un Memor Domini morto improvvisamente nel 2008, a 55 anni, in Perù, dove era in missione dal 1989, per il quale è stata aperta la causa di beatificazione. Ne hanno parlato Paolo Pecciarini e Gian Corrado Peluso (coautore del libro insieme a Gianni Mereghetti), invitati dai promotori dell’iniziativa – Letizia Camillini, Ester Di Paolo, Luigi Cioppi – amici pesaresi vissuti con Andrea negli anni universitari a Firenze.
Un uomo da guardare, Aziani, e da cui imparare a vivere. Una “febbre di vita” la sua, che non nasceva dall’ansia di fare o dal temperamento generoso, ma da un amore profondo a Cristo, dal desiderio di affermare e proporre l’unico che può cambiare radicalmente l’uomo e rivoluzionare la prospettiva di tutti i suoi problemi. “L’energia con cui si fanno le cose, infatti – diceva il suo grande maestro don Giussani incontrato durante gli anni liceali nel 1972 – è proporzionale all’ampiezza dell’orizzonte che si tiene presente”.
Ma che cosa voleva dire per Andrea amare Cristo? Glielo aveva indicato Giussani, mandandolo in missione, insieme ad altri tre universitari, dalla Statale di Milano all’Università di Siena: “Siete chiamati a vivere l’unità tra di voi dentro quell’ambiente. Dalla vostra unità, segno della presenza di Cristo viva e operante, nascerà quello che dovrà nascere”.
“Unità” dentro la “realtà”, ecco le due parole-chiave: pregare insieme, ritrovarsi tutti i sabati a fare propri i contenuti di scuola di comunità, progettare momenti di incontro con altre persone, farsi carico dei bisogni di chi si incontrava in università (alloggio, caro libri ecc.) e aiutarsi a giudicare tutto quello che succedeva nel mondo (con incontri, volantinaggi) perché tutto si trasformasse in esperienza vera e l’unità diventasse una dimensione della persona.
La fede, con questo metodo, diventava concreta, aveva a che fare con tutto, secondo quanto diceva Giussani: “Per me la storia è tutto. Dio è entrato e ha parlato nella storia”.
E diventava anche missionaria, perché con quella unità non solo l’amicizia di quei giovani cresceva, ma si estendeva a tanti altri: era una proposta positiva per tutti, che non “demonizzava” nessuno.
Una novità indiscussa negli anni ’70, dominati dalla cultura marxista, rispetto alla quale i cristiani vivevano, tranne qualche eccezione, una specie di complesso di inferiorità, chiudendosi nell’ambito interno della chiesa.
Quando fu inviato in missione in Perù, Andrea percepì facilmente il dramma di quel Paese e in generale dell’America Latina. Ebbe anche chiaro, però, che la peggiore povertà non era quella economica, ma quella umana e che la speranza del popolo non si fondava su progetti politici: era la coscienza di sé e della propria dignità che lo rendeva capace di costruire il futuro. “Avevamo una scuola, scriveva, ma questo non bastava. Se volevo aiutare i poveri, dovevo creare una università”. Nacque così, a Lima, la “Sedes Sapientiae”, per educare, anche attraverso la cultura, a innamorarsi di Cristo, il più grande rivoluzionario della storia.
“Grazie, ha detto in conclusione l’arcivescovo Sandro, di avermi dato l’opportunità di conoscere un testimone dell’incontro con Cristo, che ha contagiato con la sua febbre tante persone. Ma oggi dobbiamo rassegnarci ad essere incapaci di generare una vita come questa? Chiediamo la grazia di essere pienamente presenti al nostro tempo”.