Solenne celebrazione eucaristica in Cattedrale, presieduta dall’Arcivescovo, nel centenario della nascita, dell’illustre teologo e filosofo urbinate.
Nonostante il trascorrere inesorabile del tempo, il ricordo, le attività e la testimonianza cristiana di don Italo Mancini, sono sempre vivi e fecondi. L’opera dell’insigne teologo e filosofo è continuamente oggetto di riflessione e divulgazione. L’oblio non avrà fscilmente il sopravvento, se ancora nel centenario della nascita, ne facciamo memoria con riconoscenza ed affetto. Le sue molteplici attività all’interno della Chiesa, unite all’innumerevole produzione culturale di studioso, sono testimonianze di quanto fatto, da questo “operaio” di Dio. Don Italo invitava amorevolmente alla scoperta dei volti, facendo presente, come diceva Sant’Agostino, che “la velocita del cammino verso l’altro, dipende dall’intensità dell’amore”. Fu ordinato sacerdote nel 1949. Dopo gli studi universitari alla Cattolica ed alcuni anni di insegnamento, alla fine degli anni ’50, si trasferì ad Urbino, dove fu nominato canonico teologo della Cattedrale e qui è ancora ricordato per una serie di omelie domenicali che, per rigore e profondità, attirarono la partecipazione del Magnifico Rettore, oltre a quella di alcuni docenti e di centinaia di studenti universitari. Seguì con attenzione i movimenti di contestazione studentesca. Dal 1978, quale vicepresidente dell’Opera universitaria di Urbino, don Italo stette sempre più a contatto con le culture che animavano l’impegno delle nuove generazioni. Entrò a far parte della rivista “Bozze”, espressione di un gruppo di intellettuali cattolici, profondamente legati all’esperienza del Concilio Vaticano II.
Presentazione. Il prof. Piergiorgio Grassi, suo fedele collaboratore e docente all’Università urbinate, all’inizio della celebrazione eucaristica, ha tratteggiato la figura del maestro. Eccone uno stralcio: «Don Italo teneva molto alla sua vocazione di prete, così come quella di filosofo-teologo. Questa doppia vocazione rientra pienamente nell’area semantica dell’espressione che aveva coniato per definire il senso e la direzione della sua esistenza: fedeltà a Dio e alla terra. Fedeltà al mondo, alla terra, ai suoi valori, alla sua cultura. E fedeltà alla teologia, al mondo e alla Signoria di Dio, ai valori e alle forme teologiche, a un fare di Dio insomma, che si accompagni al fare dell’uomo. Nell’ottobre del 1949 prese la strada per Milano, come vincitore di una borsa di studio, dedicandosi con grande fervore agli studi di filosofia nell’Università Cattolica, senza dimenticare il suo essere sacerdote. Si era stabilito in una parrocchia nella frazione di Mombello, nel comune di Limbiate, alle falde della Brianza, per esercitare anche il suo ministero pastorale. Qui esisteva da tempo un ospedale psichiatrico provinciale. Frequentava spesso quegli ambienti. Un’eco di quel mondo di sofferenza lo si ritrova in Tre follìe, il libro che contiene le sue conversazioni radiofoniche («I pensieri dell’alba»). Don Italo conosceva bene tutte e tre le forme di follìa e ne parlava spesso. Ricordava i tanti reclusi dell’ospedale psichiatrico di Mombello, cui recava spesso amicizia e conforto: conosceva bene lo stigma che li segnava e li escludeva».
Omelia. «La salvezza», ha sottolineato mons. Salvucci, «è possibile solo all’insegna del primato della Grazia e non in virtù della bravura umana. Don Italo ha assimilato il Maestro anche nell’approccio con i suoi interlocutori, invitandoli a misurarsi sulle domande esistenziali e sulle conseguenti scelte da compiere».