Infrangere il silenzio in questa circostanza parrà una violazione della custodita riservatezza di don Romano, riservatezza difesa ad ogni costo; di ciò occorre scusarsi. Le ragioni per prendere commiato da lui a parole risiedono proprio nel fatto che alle parole ha affidato la sua guida, come professore, sacerdote, amico e certo anche come parente. Don Romano ha ripetutamente insegnato che a fronte della Parola di Dio, la sola infallibile, quella dell’uomo è sempre inefficace, incapace di comunicare senza travisamenti, eppure è attraverso la parola che ci si esprime, è il male necessario. Le sue sono state parole di insegnamento nelle aule, di commento alle Scritture nelle liturgie, di quotidianità nella conversazione nelle famiglie, la sua e le numerosissime, che negli anni hanno ricevuto le sue visite all’ora del caffè intorno alle 13,20.
La conversazione con don Romano poteva toccare qualsiasi tema, dal più impegnato al più casereccio, sempre con il carattere amabile, sorridente, acuto, rispettoso e pronto a dissipare le chiacchiere e le derisioni, come rischia di accadere intorno ad un caffè. La sua parola ha visitato la realtà, le case ed ha aggregato persone: i ragazzi dei tornei di calcio alla Buca; i giovani che si avvicinavano alla musica della nuova liturgia, dai quali sono nati gli Ukko Boys; le ragazze del ’77 e dintorni, il Gruppo insieme. A tutti ha insegnato con l’esempio il valore e il significato dell’amicizia; ci ha detto e ripetuto con coerenza le stesse parole, senza disperdere con il cambiare dei venti la fedeltà ai valori in cui ha creduto, di cui ha dato testimonianza viva e che ha trasmesso. Abbiamo nelle orecchie i suoi motti, i suoi nomignoli (la stoppa, il ricciuto…), persino il robotico, il suo linguaggio di gioco. Tutto questo ha creato familiarità, complicità, aggregazione, attenzione verso ciascuno. Don Romano è stato come l’Emmanuele il Dio-con-noi.
In questa quotidianità familiare si sono riversate le sue parole, sempre scelte, sempre accorte, come le sue omelie, allo scopo di andare all’essenziale, alla sostanza, senza infiorettamenti retorici né chiassose gigionate accalappiatutti. La sua figura di sacerdote, restio all’eccesso liturgico, ostile all’improvvisazione creativa, ha garantito alla Comunità della SS. Annunziata un rito lineare non severo, decoroso, ben pórto, si direbbe paleocristiano, se non fosse nota la sua indole rinascimentale; don Romano è stato un umanista dei nostri giorni e forse in quel dibattito sprovincializzato, di respiro europeo, che sorse tra Erasmo e Polidoro Virgili, don Romano ha finito per identificarsi, fino a trascorrere un anno nell’Inghilterra di Polidoro, Parroco sì di Pieve del Colle, ma Arcidiacono di Welles.
Il suo essere con il popolo era intonato sulle stesse note del suo stare in amicizia con i preti, con i grandi maestri, in primo luogo e sopra tutti don Ugo Del Moro, e poi con i compagni di seminario e di sacerdozio: don Riccardo Magnanelli, don Giancarlo Pappi, don Giovanni Rossi, don Alceo Volteggi, don Eugenio Gregoratto, don Franco Gori, don Romano Conti, don Umberto Brambati, don Agostino Venturi.
Il lascito di don Romano è per centinaia di urbinati di più generazioni, un lascito di educazione, di fedeltà, di buone maniere, di spirito, di ferme convinzioni, di fuga dagli eccessi, di frasi e proverbi, perché il suo parlare sembrava fatto apposta per rimanere impresso nella memoria