È tipico nella devozione popolare vivere il culto dei santi spesso stretta correlazione con l’aspettativa del fatto prodigioso operato dall’amico di Dio. Questa tentazione ancestrale, rischia però di mettere in secondo piano il valore primario della fiducia incondizionata nel Signore
In questi giorni ricorre la memoria di due santi “taumaturghi”, cioè operatori di miracoli: pensiamo al vescovo San Biagio, del IV secolo, che abbiamo commemorato lo scorso 3 febbraio, e san Valentino (il vescovo di Terni? il presbitero di Roma?) che festeggiamo il 14 febbraio, le cui reliquie sono venerate nella chiesetta della Santissima Trinità a Sassocorvaro. Entrambi santi, entrambi operatori di miracoli, l’uno contro il male della gola, l’altro in favore degli innamorati. Per non parlare di un altro nostro grande santo, Cristoforo (25 luglio), patrono di Urbania, annoverato tra i 14 Santi ausiliatori particolarmente invocati in occasione di gravi calamità naturali o per la protezione da disgrazie o pericoli specifici. L’inno tradizionale casteldurantino, invoca la sua protezione dai terremoti.
Attrazione e distrazione. È dottrina comune della Chiesa che per beatificare o canonizzare cristiani di cui sono pubblicamente riconosciute le virtù eroiche – tranne nel caso del martirio – è richiesta la convalida del miracolo. Tuttavia, il discorso rischia di prendere una deriva feticista e sensazionalista, se non viene ricondotta nell’alveo della sana dottrina che prende le mosse dal Vangelo e, più in generale, dal Nuovo Testamento. Ricordiamo alcuni passi biblici oltremodo eloquenti. Innanzitutto nel vangelo di Giovanni, al capito 6 (vv. 26-27), quasi a cerniera tra la moltiplicazione dei pani ed il seguente discorso sul pane di vita, Gesù rimprovera la folla con queste amare parole: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà». Ancora più drammatica e sarcastica è la scena del Golgota, quando i sommi sacerdoti sbeffeggiano Gesù morente: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda ora dalla croce e gli crederemo» (Mt 27,42). Anche san Paolo, proprio all’inizio della sua I lettera ai Corinzi, afferma: «Mentre i giudei chiedono i miracoli e i greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso» (1,22).
Non solo i santi. Per fare un salto di secoli, l’attrazione spasmodica verso il miracolo, lungi dal toccare solo i santi, raggiunge pure i re cui, in virtù della loro consacrazione con il sacro crisma (tradizione che è giunta, per il Regno Unito, sino all’attuale monarca Re Carlo III), era attribuito il potere di operare fatti prodigiosi. Tanto che lo storico francese Marc Bloch nel 1924 scrisse un saggio intitolato I Re Taumaturghi, in cui viene analizzata la leggenda del tocco miracoloso dei sovrani francesi e inglesi, coi quali si credeva guarissero i sudditi dalle scrofole (pustole cutanee). Da tutta Europa giungevano alle corti francesi e inglesi malati di scrofole in cerca della guarigione miracolosa.
Binomio inscindibile. La cautela della Chiesa nel confermare i miracoli ci richiama, quindi ad un valore più alto, rispetto al miracolismo, che investe il santo e che deve ricadere sulla nostra esistenza: quello della fede fiduciale nel Signore che porta, diremmo quale “inevitabile conseguenza”, alla testimonianza cristiana. Fede e testimonianza cristiana, quindi, divengono il vero binomio che determina la santità nella Chiesa di ogni luogo e di ogni tempo. Anche di questo nostro tempo.