Quasi mille delegati (vescovi, sacerdoti, consacrati e laici) delle diocesi italiane si sono riuniti dal 15 al 17 novembre a Roma, nella splendida cornice della Basilica di S. Paolo fuori le Mura, per la prima Assemblea Sinodale della Chiesa Italiana, a cui hanno partecipato anche sette rappresentanti di altre chiese cristiane: un’esperienza ecclesiale di preghiera, ascolto e confronto su diciassette schede tematiche, esaminate in 100 tavoli, in vista di una seconda Assemblea che si terrà dal 31 marzo al 4 aprile 2025.
Gli interventi introduttivi del cardinale Zuppi e di Mons. Castellucci hanno innanzitutto richiamato i presenti ad affrontare i lavori con il giusto atteggiamento: ricordando, cioè, che la Chiesa è costruzione di Dio prima che degli uomini ed è sempre benedetta e governata da Cristo, come la maestosa immagine del Pantocratore, dall’alto dell’abside della Basilica di San Paolo, rivela.
Certo, la sociologia trae dalle statistiche le sue conclusioni impietose sulla fede. Ma la comunità cristiana si nutre di tante relazioni e tante piccole azioni che non sono contemplate dalle statistiche.
Non ci si deve, dunque, lamentare del deserto né si devono assumere atteggiamenti stizziti o accusatori. Occorre piuttosto rintracciare nella realtà i doni che lo Spirito comunque suscita. Senza nostalgia, ma anche senza disistima per il passato: perché, se la Chiesa non fosse “uscita” anche in passato, attraversando venti secoli di storia tra ostilità esterne e contraddizioni interne, l’annuncio del Vangelo non sarebbe giunto fino a noi.
Oggi, naturalmente, la Chiesa è interpellata da un nuovo contesto, che la pone di fronte a un duplice rischio: da un lato, “assecondare a tutti i costi la realtà, cadendo nel relativismo e nella acquiescenza, scambiati a volte per carità; dall’altro affermare a tutti i costi un ideale, cadendo nel fondamentalismo e nell’intolleranza, scambiati a volte per verità”. (Castellucci)
La Chiesa, pertanto, deve domandare allo Spirito la capacità di cogliere quello che del cristianesimo ‘fa la differenza’ nella cultura in cui è chiamata a vivere. Deve domandare, cioè, il dono dell’unità tra la cultura (la visione dell’uomo e della vita del proprio tempo) e la ‘profezia’, l’annuncio del Vangelo. Senza questa unità, la cultura rimane astratta e relegata nelle accademie, mentre la profezia rischia l’insignificanza.
L’unità di profezia e cultura richiede una conversione di tanti aspetti della Chiesa: della mentalità, dell’azione pastorale, delle strutture. Aspetti che sono stati e saranno ancora oggetto di condivisione e di confronto, oltre che di preghiera, in questo cammino sinodale.
Ma qual è l’aspetto prioritario, generativo di una vera missionarietà? E’ quello indicato nella triade “comunione, partecipazione, missione”.
È la comunione la condizione prima della missione. E quindi l’unità di relazioni, di gesti, di giudizio all’interno delle comunità ecclesiali, dove Cristo abita. La missione non è mai un atto individuale e non è sufficiente la testimonianza personale. Solo se le nostre parrocchie, le associazioni, i movimenti sono luoghi di unità e di amicizia, si possono proporre con libertà e spirito di accoglienza a tutti, affinché la comunione si estenda a chiunque si incontri. Perché, come ha scritto il Papa nel Messaggio per la Giornata dei Giovani, “la vita è un andare instancabile verso tutta l’umanità”, ma “per invitarla all’incontro e alla comunione con Dio”.