Promossa dai diaconi Biagio Picone e Juan Carlos Rivero dell’Ufficio diocesano della pastorale della Salute, l’importante e profonda iniziativa ha raccolto entusiastiche adesioni da tutte le zone della nostra Arcidiocesi
Giovedì scorso 5 settembre si è concretizzata un’iniziativa – rivolta in particolare agli adolescenti – programmata fin dalla primavera scorsa: la visita a san Patrignano, la comunità di recupero fondata negli anni ’70 da Vincenzo Muccioli. Siamo arrivati con due pullman e diverse auto, 131 persone curiose (in massima parte ragazzi), con una forte motivazione a conoscere. Accolti nel parcheggio, ci dividiamo in 3 gruppi, ed entriamo tutti accompagnati da guide. Mentre camminiamo all’interno di un mastodontico edificio che si estende per 500 ettari, ci fermiamo in una delle sale lavoro dove si fila con il telaio, ci accoglie Milena, giovanissima e bellissima, con una importante storia di dipendenza, solitudine, carcere e tanto altro alle spalle, Milena, come tutti coloro che abbiamo ascoltato, ha sottolineato il valore della famiglia, dell’amicizia, dell’ascolto, della fiducia e della speranza.
Lo stile. “Sanpa”, così i ragazzi chiamano San Patrignano, una comunità, per alcuni una casa, per tutti un luogo di opportunità, per altri un luogo di rinascita. Non sono pazienti, infatti la comunità non è un ospedale. Il termine tecnico è utente. A Sanpa sono persone, o meglio, “Le persone che cerchiamo di aiutare”. “Una persona, quando entra in comunità, tende alla diffidenza verso chiunque. Infatti il difficile, in un programma di riabilitazione, non è il momento iniziale in cui la persona, è appena uscita da una situazione orribile, ed è motivato a cambiare. Il difficile è lavorare su questo obbiettivo a lungo termine”, ci spiega Gessica, giovane ragazza che ha portato a termine il percorso ed ora è con noi per guidarci in comunità. Eliminare la dipendenza fisica da una sostanza forse non è poi così difficile. Il grande ostacolo sono le anomalie che accompagnano tutti i soggetti dipendenti. La loro fatica a porsi dei limiti ad esempio. Fondamentali sono le relazioni: per la maggior parte dei casi, sono persone sole, incapaci di costruire relazioni stabili.
Cambio di mentalità. Dagli anni ’70 a oggi la concezione della droga nella società è cambiata radicalmente. Prima, la droga univa perché era trasgressione, bisogno di cambiare il mondo. Un’esperienza di condivisione, di ribellione. Oggi chi si droga lo fa per alleviare sofferenze personali. Nelle scuole, tra i giovani, il termine trasgressione non si sente più. Oltre all’uso di sostanze è cambiato il concetto stesso di comunità. Nei primi centri di riabilitazione i tossicodipendenti erano trattati come dei malati. Niente di più. Erano luoghi distanti dalla società. E una volta guariti dalla loro “malattia”, erano abbandonati a loro stessi durante il loro ritorno alla vita di tutti i giorni. Non venivano forniti strumenti emotivi e psicologici necessari per combattere le ricadute. Oggi il 90% delle comunità non cerca di isolare nessuno, ma di accompagnarlo in un percorso che si sviluppi per il resto della sua vita. Molti arrivano, alcuni restano, altri scappano, forse pochi ce la fanno; fondamentale è andare avanti, cercando di non lasciare indietro nessuno.