Sermig. Una sigla che non crea grandi aspettative ad una prima lettura. Si presenta come strana e misteriosa, un po’ come lo stato d’animo dei 16 ragazzi che il 29 luglio sono saliti su un treno veloce con una valigia carica di vestiti e la testa piena di dubbi. Nessuno di noi sapeva bene cosa lo aspettasse in quel monumentale ex arsenale, che è ora una casa della pace. Solo il lavoro e la preghiera erano gli aspetti noti. Appena arrivati nell’edificio ci ha subito accolto un cortile suggestivo che presenta edera, giardinetti d’acqua e un “monumento” con la frase “la bontà è disarmante”. Da quel cortile si accede alla cappella, un luogo di preghiera costruito con i residui dell’ex arsenale; il tabernacolo è stato ricavato da un forno. Ogni ambiente è così curato e ricco di simbolismo da sembrare un monastero. In effetti la vita del Sermig contiene in sé alcune caratteristiche di quella monastica: orari stabiliti, duro lavoro per meritarsi il cibo, preghiera, riflessione, spazi immensi ma circoscritti.
Le mattinate iniziavano con le lodi e un momento di preghiera, in una chiesa che è un capolavoro di arte contemporanea. Il lavoro era l’altro aspetto cardine, che sembrava “terrorizzare” un po’ tutti. Gli impieghi erano tra i più disparati: smistamento dei vestiti, magazzino, falegnameria, il laboratorio creativo chiamato “Di tutto un po’”, cucina, pulizie, preparazione liturgia e poi “Cumiana”. Quest’ultimo consisteva nel recarsi in questa località, da cui partono gli aiuti raccolti dal Sermig per i paesi bisognosi. La preghiera ci ha accompagnato all’inizio e alla fine del lavoro ed è stato il collante tra noi ragazzi volontari.
I momenti di riflessione pomeridiana erano incentrati sulla coscienza, soprannominata “la bella addormentata”, colei che trascuriamo e ignoriamo essendo sprofondati nel vortice della routine e dei mass-media. Il venerdì sera, ultima serata, abbiamo festeggiato i 30 anni del Servizio Missionario Giovani, cioè da quando Ernesto Olivera e i suoi amici hanno invaso quell’ex fabbrica di guerra, per renderla la sede della pace. Davvero un’esperienza che cambia, fa maturare, destabilizza ma poi ci ricostruisce con materiali ancora più robusti! La paura è quella di perderne il gusto a causa della routine, perché è davvero difficile ridimensionarsi nella propria quotidianità, ma questa diventa la nostra sfida: portare il messaggio di pace nella vita di tutti giorni. Un messaggio fatto di preghiera, ma anche di validi insegnamenti. Tra tutti, la chiara dimostrazione che se crediamo fermamente in qualcosa e ci diamo da fare, possiamo ottenerla. È vero bisogna faticare e anche collaborare, specialmente quando l’obiettivo che si vuole raggiungere è immenso, però non bisogna mai disperare e questo perché al nostro fianco c’è sempre Lui.